sabato 4 gennaio 2014

Il peso delle parole

Una cara amica - Tonina Santi (la sua lettera è riportata nei commenti) -  mi scrive indignata per l'articolo di Guido Ceronetti pubblicato su Repubblica.it in cui l'autore si scaglia contro l'uso del termine femminicidio, arrivando a definirlo "orripilante". 

Dopo aver letto un paio di volte l'articolo, devo confessare che la motivazione di tale astio nei confronti di una parola che viene oggi riportata in tutti i principali vocabolari continua a sfuggirmi. Ma questo non è importante. Potrei essere io a non essere culturalmente adeguata ad interpretare la dotta disquisizione di Ceronetti, al quale, evidentemente non interessa che sull'uso del termine femminicidio si sia espressa favorevolmente anche l'Accademia della Crusca .



E' vero che la parola femminicidio non piace molto. Anche alle donne.  Molti ne mettono in discussione l'utilità,  dopotutto si tratta comunque di un omicidio, che bisogno c'è di trovare un'altra definizione che sia collegata al sesso della vittima? altri ancora ne contestano il significato profondo, il legame tra l'atto di violenza e la matrice culturale che lo ha generato. 
Il Devoto Oli definisce femminicidio Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l'identità attraverso l'assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte". Credo che sia proprio l'evidenza di questo collegamento che rende il termine femminicidio così difficile da accettare. E da usare.

La propensione tutta italiana ad utilizzare (e abusare di) neologismi di ogni sorta, spesso derivati da termini inglesi (pensiamo ai vari chattare, taggare, linkare e via dicendo), trova forme di inspiegabile resistenza quando si tratta di introdurre nel linguaggio corrente termini che in qualche modo incrinano la "sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale" sopra citata. Sarebbe altrimenti difficile spiegare perchè parliamo tranquillamente di un ragazzo che fa il "tronista" o il "blogger", ma molti fanno fatica a dire Ministra, per indicare "una donna che ricopre la carica di Ministro" (definizione che trovate nello Zingarelli).

La definizione femminile di cariche e professioni da sempre declinate al maschile, come per esempio tutti gli incarichi politici, non è uno scempio linguistico, ma l'espressione di una realtà in evoluzione. La lingua non è rigida, tutt'altro. E' aperta e mutevole perchè deve aiutarci a descrivere fenomeni in continuo mutamento. Fenomeni che trovano riconoscimento proprio nel momento in cui abbiamo le parole per definirli. 

La violenza sulle donne esiste da sempre. E da sempre cresce e si alimenta di un humus culturale maschilista in cui le donne hanno meno valore, meno capacità e meno diritti degli uomini. In cui l'onore del maschio conta più della vita di una donna. Si dice spesso che la violenza sulle donne è in crescita. Io tendo a credere che si stia solo rendendo più visibile. E noi abbiamo appena iniziato a chiamarla con il suo nome: femminicidio. 

3 commenti:

  1. Sono molto d'accordo anche se penso che occorre allargare ai giovani e aprire un cerchio...interessante il blog di Chiara Bedetti

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  2. Cara Miriana, anch'io sono convinta che bisogna aprirsi. E' importante che il linguaggio comune possa assorbire le parole "delle donne", altrimenti ci rinchiudiamo in un ghetto. Basta pensare allo scarso utilizzo del termine "genere", solitamente relegato agli approfondimenti tematici o alla parola "conciliazione" ancora oggi associata dalla maggior parte delle persone all'ambito della mediazione civile. Le parole acquisiscono peso e dignità man mano che si allarga il loro uso.

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  3. Inutili paternalismi

    Dopo Vittorio Feltri, che alla vigilia della ricorrenza del 25 novembre, su Il Giornale, si dichiara indignato per il clamore suscitato negli ultimi tempi dai cosiddetti femminicidi”, e che “128 donne massacrate nel 2013, sono in assoluto troppe, ma relativamente ai 60 milioni di cittadini italiani, statisticamente parlando, sono pochissime” Violenze e soprusi, su vecchietti e bambini sono all'ordine del giorno, scrive, ma nessuno sembra occuparsene tanto quanto la questione del femminicidio. Eccolo qui il benaltrismo in cui si svicola quando non si vuole riconoscere la specificità di un problema: stanno male tutti quindi, non sta male nessuno.

    Guido Ceronetti su La Repubblica del 27 dicembre, rifacendosi alla “giornata salvadonne” ci bacchetta invitandoci a regalargli la cancellazione della parola ”femminicidio” che, a suo dire, abbasserebbe le donne a “tutto ciò che in natura è di genere femminile, dunque zoologico, col destino comune di figliare e allattare”. Preferirebbe la sostituzione di tale sostantivo con “ginecidio appartenente alla schiera dei derivati dal greco classico”. Una discendenza più nobile?

    Per dimostrare la giustezza del suo dire, si compiace di fare sfoggio della sua cultura citando fatti, personaggi, poeti e filosofi ammalati di misoginia (da Euripide a Nikola Tesla), che pur restando alla larga dalle donne, mai le avrebbero uccise. Ma non ne avevano bisogno perché la storia, la cultura che stanno alle nostre spalle, raccontano dell'uccisione delle loro anime, raccontano della secolare subordinazione femminile all'uomo, di un destino precostituito socialmente e giuridicamente.

    Io personalmente non cambierei la parola femminicidio. Non intenderei farle questo favore, caro Ceronetti, continuerei a chiamare femminicidio l'uccisione delle donne da parte degli uomini.

    Penso che lei abbia in memoria le battaglie delle donne degli anni settanta per la liberazione da un ruolo di asservimento, all'uomo. Lo abbiamo chiamato “femminismo” con orgoglio, volendo significare che occorreva ripartire dalle origini, per riscoprire le differenze di genere dando valore a entrambe: il solo modo per rendere possibile una vera uguaglianza tra uomini e donne. E per poter scegliere liberamente il proprio percorso di vita. Forse è questa “disobbedienza” che non viene accettata, che spinge i tanti che dicono di amarci alla violenza, ai maltrattamenti, all'uccisione.

    E' questa la questione da discutere, è questo il tema del dialogo che dobbiamo tentare di fare insieme. Né Feltri, né Ceronetti però hanno dimostrato di interessarsene, di voler capire le ragioni per cui troppi appartenenti al genere maschile (che non figliano né allattano) ammazzano tante donne.

    Dire che “violentare, è lo stesso che uccidere l'eterna legge trasgressiva di Antigone, quella dell'amore perdutamente ed esclusivamente scritta sugli astri” fa parte della cultura di chi intende dimostrarsi dotto. Ma le sopraffazioni, le uccisioni sono di questa terra. Ora. E sarebbe meglio chiamarle col loro nome per aiutarci a svelarne il malessere. Gli astri non c'entrano nulla.

    Tonina Santi

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